(Il Mattino, 3 giugno 2011)
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«In una società edonista come la nostra, dominata dall’ossessione per il corpo, che si vuole sano, efficiente, bello, la bruttezza è un vero e proprio handicap, l’anatomia un destino beffardo. Ma solo noi donne dobbiamo preoccuparcene». C’è chi se ne occupa andando in palestra, chi ricorrendo al chirurgo plastico per correggere, piegare la linea del tempo e le tracce che questo lascia. E c’è chi scrive un libro. Volevo essere una gatta morta (Einaudi, pp. 248, euro 13.50), di Chiara Moscardelli è un romanzo di formazione al femminile. Basta leggere le quattro pagine di ringraziamenti in coda al libro che sono, anche, una traccia per comprenderne la genesi e lo sviluppo. Il racconto si apre e si chiude in ospedale, due interventi su un corpo, uno per asportarne un tumore benigno a un seno, l’altro la cistifellea. In mezzo la vita di Chiara, un brutto anatroccolo trentatreenne, che passa adolescenza e giovinezza credendo nell’amore. Un anatroccolo che mentre cresce, si laurea, cerca trova e perde lavori, non diventa cigno, né tantomeno la gatta morta evocata nel titolo. Chi è questa figura che la protagonista osserva, studia, cerca di capirne psicologia e strategie, per arrivare alla fine a trovare se stessa? Con lo stile ironico e dissacrante che caratterizza l’intera narrazione (espliciti i riferimenti a «Il diario di Bridget Jones» o alle donne di «Sex and the city»), l’autrice ne traccia un identikit preciso a uso e consumo di quelle che come lei magari non sono nate podaliche (un particolare che diventa una specie di leitmotiv, anche se non simboleggia nulla se non forse la rivendicazione di un’originaria diversità), ma nemmeno donne in grado di scegliere un uomo e di giocare la partita per arrivare al loro unico e vero obiettivo: il matrimonio. Quello che viene dipinto a tinte pastello è il ritratto spietato di una società in cui tutto è confuso, in cui schegge impazzite e tutte concentrate su di sé cercano di incastrarsi le une con le altre, per lo più facendosi del male. Unica nota positiva l’amicizia, capace di resistere negli anni, di regalare momenti di gioia pura. Ma in fondo non è così l’esistenza, con i suoi drammi e le sue tragedie e con le sue piccole pietre preziose? «La cosa certa, ora, è che dipende da me dare una svolta alla mia vita. Io sono bella, più dentro che fuori, s'intende, ma comunque bella, e qualcuno prima o poi se ne accorgerà. Soffrire ed essere lasciati fa parte del gioco». Con l'unico problema che, se si giocano partite diverse, si continuerà a incrociarsi senza mai incontrarsi veramente, come monadi chiuse nel proprio guscio che arrancano alla ricerca di un posto al sole. Che ovviamente è artificiale.