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martedì 8 ottobre 2013
martedì 25 settembre 2012
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domenica 11 marzo 2012
giovedì 16 febbraio 2012
"LA MIA CARRIERA DA ONESTO DISEGNATORE"
Solo due parole.
Questa intervista mi è valsa la prima accusa di faziosità della mia carriera. Bene. Significa che sto seguendo la strada giusta, visto il pulpito da cui proviene la predica...
domenica 5 febbraio 2012
TRASFORMARE IL DOLORE
"Così è la vita, l'ultimo volume di Concita De Gregorio"
(Via Pò, 4 febbraio 2012)
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(Via Pò, 4 febbraio 2012)
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lunedì 23 gennaio 2012
venerdì 6 gennaio 2012
Craig Thompson: I fumetti sono spartiti musicali
(L'Unità, 4 gennaio 2012)
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Gli occhi del colore del cielo in una giornata brumosa, il sorriso accennato a fior di labbra, le parole offerte all’ascoltatore senza fretta: incontriamo Craig Thompson nella sede di Casterman, il suo editore francese, per parlare della sua nuova novel graphic Habibi (Rizzoli/Lizard, pp. 672, euro 35,00), un’opera dalla complessa architettura, un incastro raffinato di storie, punti di vista, di mondi fantastici o meno, un gran calderone in cui con sapienza ed eccentricità si combinano riflessioni ecologiste, sull’amore e sulla calligrafia, a un tentativo di dimostrazione della radice comune delle tre religioni monoteiste. E molto altro ancora. Dopo un veloce scambio di battute di presentazione, entriamo nel vivo della chiacchierata. «Il cuore della storia» ci dice l’autore americano, «è la relazione sentimentale fra Zam e Dodola, dei loro traumi sessuali. La questione che mi interessava indagare era quella di come possono guarire gli individui segnati da esperienze negative. Grazie a una relazione? Un luogo particolare?».
Possiamo allora affermare che la forza dell’individuo è nella coppia?
«Credo che l’individuo debba rafforzare prima se stesso, curarsi se ha avuto dei problemi, prima di arrivare a essere davvero presente in una relazione. Non è possibile tenere insieme due pezzi rotti. Per me è stato più facile scrivere le storie separatamente e raccontare l’attesa dell’uno e dell’altra. Penso che questo stato di cose parli molto alle persone. Il momento più duro da affrontare è stato il momento in cui si sono riuniti. Ho passato mesi senza sapere come la storia si sarebbe conclusa».
«Habibi» può essere considerato un omaggio alle diverse forme d’amore che una donna può incarnare?
«Non in maniera cosciente, anche se sono contento che lei lo abbia percepito. Come uomo certamente non posso che scrivere da un punto di vista eminentemente maschile. Questo lavoro è comunque un libro che cerca di rendere fluidi i confini fra i generi, fra il maschile e il femminile. È lo stesso principio che mi muove nel mio tentativo di dimostrare che non ci sono poi così tante differenze tra le diverse religioni monoteiste».
Crede che ci sia un unico dio per tutti o che dio non esista?
«Sono convinto dell’impossibilità della percezione umana della divinità. Questo però non mi impedisce di avere una spiritualità. Anzi, credo che ogni essere umano sia sacro e questo implica di rispettare ognuno, ma devo ammettere che sono più interessato agli aspetti esoterici ed estetici di quelle religioni».
In «Carnet de voyage» (2004) paragona la danza alla scrittura. Vale lo stesso per il fumetto?
«No. Danzare coinvolge il corpo nella sua interezza, disegnare fumetti solo una piccolissima parte. Tuttavia penso che ci sia una musicalità nel fumetto, e nella calligrafia, ed è proprio questo ritmo tutto speciale che cerco di restituire attraverso il mio lavoro».
Dunque, la musica più che il cinema.
Dunque, la musica più che il cinema.
«Certamente. Chris Ware dice che una tavola a fumetti è una specie di partizione, che i disegni sono le note musicali e che è compito del lettore di battere il ritmo. Il disegnatore, attraverso le vignette, non fornisce altro che indizi. Al cinema, invece, tutto il processo viene subito. Le immagini si muovono davanti a noi, mentre durante la lettura di un fumetto niente, letteralmente, si muove. La magia è creata dal lettore».
Visto il successo avuto, ha mai pensato di realizzare un’animazione di «Blankets»?
«Nel 2004 l’idea era stata presa in considerazione, anche se alla fine ho deciso di non dare più seguito al progetto. C’erano alcuni problemi a livello contrattuale ma soprattutto si trattava di una storia i cui personaggi erano reali e alcuni di questi non erano d’accordo».
C’è stato un prezzo che ha dovuto pagare per raccontare questa storia?
«Ho ferito alcune persone che mi erano vicine. Mi sono posto anche il problema se continuare a disegnare fumetti, a fare arte».
Autore completo, lei scrive e disegna le sue storie. Qual è la differenza tra l’immagine e la parola? La prima è più potente della seconda?
«Parole e immagini hanno ciascuna i loro punti di forza e di debolezza. Personalmente non mi sento a mio agio escludendo l’una o l’altra. Quello che è certo è che quando riesco a trovare un equilibrio con entrambe, allora ho l’impressione di avere una certa eloquenza. L’immagine è sicuramente più immediata. Però una sequenza disegnata ha bisogno di più spazio e tempo per trasmettere un’informazione, la stessa che può essere invece contenuta in un paragrafo. A volte la prosa è più efficace, ma anche questo non è sempre vero».
Progetti futuri?
«Sto lavorando contemporaneamente a tre nuovi libri, tra cui un fumetto per ragazzi e il primo tomo di una serie. Dopo un albo così impegnativo, avevo voglia di divertirmi un po’».
venerdì 30 dicembre 2011
domenica 18 dicembre 2011
mercoledì 14 dicembre 2011
GIACOMETTI E GLI ETRUSCHI
(Il Mattino, novembre 2011)
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Si racconta che Alberto Giacometti sia rimasto due ore a contemplare silenzioso la statuetta etrusca, battezzata da Gabriele D’Annunzio come L’Ombra della sera (datata intorno al 350-300 a. C.), nel Museo di Volterra. Il viaggio che lo aveva portato in Italia, sulle orme dell’antica civiltà etrusca (da Firenze a Pisa, da Veio a Volterra appunto), era l’atto finale di una fascinazione iniziata qualche anno prima. Nel 1955, infatti, la visita alla mostra organizzata al dipartimento Antichità e Archeologia del Louvre sull’arte della popolazione centro italica, aveva impressionato così tanto l’artista da spingerlo a ripensare il suo atelier, organizzandolo sul modello di una tomba etrusca. Certamente, poi, mille saranno state le domande che una prossimità così evidente avranno suscitato in lui.
Proprio dalla volontà di rendere esplicita quella che si potrebbe considerare una filiazione diretta o quantomeno un’estrema vicinanza di due estetiche, nasce il percorso dell’esposizione Giacometti e gli Etruschi aperta fino al 2 ottobre alla Pinacoteca di Parigi. Un legame che i visitatori potranno apprezzare grazie al dialogo tra 30 pezzi dello scultore svizzero (tra cui diversi disegni su carta e schizzi sul catalogo della mostra del’55 o su altri libri, nonché alcuni quadri a olio) e 150 oggetti etruschi (anfore, urne cinerarie, vasi, ceramiche, gioielli, sarcofagi scolpiti e statue di diversa grandezza). Ovviamente non poteva mancare l’opera che aveva provocato uno shock così forte in lui. L’Ombra della sera, statua di bronzo dall’aspetto longilineo e filiforme, misteriosa e sensuale con il viso di un bambino che esprime però la saggezza di un vegliardo, rappresenterebbe la divinità chiamata Tèges, il custode dei fondamenti religiosi della spiritualità etrusca. L’aneddoto racconta che fu trovata da un contadino e usata per anni come attizzatoio. Fatto sta che dal 1731, informazione tramandata grazie a una nota lasciata dal prete Anton Francesco Gori, appartiene alla collezione privata di una famiglia aristocratica.
«I confronti» dice Marc Restellini, direttore della Pinacoteca, «sono senza dubbio ciò che c’è di più esaltante per far avanzare la storia dell’arte». Sebbene con una valenza metafisica nel caso di Giacometti, più religiosa per l’anonimo scultore etrusco, in entrambi i casi è la fragilità umana a essere il soggetto della rappresentazione. Solo che passeggiando per le sale, concepite nel rispetto dei quattro periodi della storia etrusca (la villanoviana, l’orientalizzante, l’arcaico e il classico, l’ellenistico), il gigante della scultura del secolo scorso fa la figura del nano: la potenza e la freschezza dei reperti etruschi (talvolta così piccoli da non superare qualche centimetro) sono impareggiabili. Ironia della sorte, quella civiltà così raffinata e moderna (basti pensare al ruolo affatto marginale delle donne nella società), fu sconfitta e condannata all’oblio da un popolo più giovane e più rozzo: quello romano.
Silvia Santirosi
mercoledì 23 novembre 2011
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