giovedì 27 ottobre 2011

L'INVENTION DE L'OEUVRE


(Il Mattino, settembre 2011)
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Cosa può nascere dal confronto tra un centinaio di opere di Auguste Rodin e una trentina di lavori di artisti moderni e contemporanei (tra i quali ricordiamo Jean Arp, Alberto Giacometti, Joan Mirò, Eduardo Paolozzi o Bruce Naumann)? Come il cortocircuito che si innesca può arricchire, modellare lo sguardo dell’osservatore? Sembrano essere queste le domande che sottintendono l’allestimento della mostra L’invention de l’oeuvre. Rodin et les ambassadeurs, aperta al pubblico fino al 4 settembre al Musée Rodin di Parigi. Organizzata senza alcuna intenzione di ricostruzione storica, piuttosto ispirata dalla volontà di indagare come la sua opera abbia influito su quelli che l’hanno studiato e preso a modello, la mostra riesce bene nel tentativo di restituire la tensione tra l’interpretante e l’interpretato ricostruendo con precisione il contesto artistico e critico che va dalla seconda metà del XX secolo fino ai nostri giorni. Il percorso espositivo si organizza intorno a undici temi, undici denominatori comuni come modellare, pelle, riprodurre, figure parziali, assemblare. Peccato solo che lo spazio sia un po’ troppo angusto, con una mancanza di respiro tra le sculture che finisce per penalizzare la visita.

Ma entriamo nel dettaglio. In Figures Partielles (Figure Parziali) sono ad esempio messe in relazione le sculture L’homme qui marche (L’uomo che cammina) o Iris a due immagini della serie fotografica Every One di Sophie Ristelhueber, realizzata per denunciare gli orrori della guerra nella ex-Jugoslavia. Quello che risulta evidente in entrambi i casi è la presa di distanza dall’ideale classico del “Tutto”, considerato come meta da raggiungere. Omettere diventa, quindi, un altro modo per affermare: la carica erotica della scultura rappresentante Iris non subisce alcuna alterazione dal fatto che l’osservatore si trova davanti a una donna senza testa. Anzi. E, nel caso del lavoro della fotografa francese, focalizzare l’attenzione su una parte (le cicatrici sui corpi martoriati di uomini e donne) escludendo volti, pezzi di braccia e gambe, finisce per esacerbarne la forza. Che dire ancora delle Séries et Variations (Serie e Variazioni) che mettono in scena il dialogo fra il Diary of Clouds (Diario delle nuvole) dello svizzero Ugo Rondinone e i numerosi studi dell’artista francese sul viso di Clemenceau? Lo stesso spirito critico della serialità, uno dei tratti specifici della modernità, anima entrambi i lavori. Il paradosso tra la permanenza della scultura e l’incessante mutamento delle nuvole e delle espressioni o dei tratti somatici (soprattutto i baffi del “Tigre”) dell’uomo politico, bene rappresenta l’eterno mutamento delle cose e l’impossibilità di raggiungere la compiutezza e la perfezione. Tra gli accostamenti più riusciti, quello tra La vestaglia di Balzac e la Pelle del pianoforte di Joseph Beuys. Il contrasto fra interno ed esterno si annulla per lasciare spazio a un dispositivo più globale e la superficie diventa segno di qualcos’altro: il genio creatore dello scrittore nel primo caso, un oggetto nel secondo.
Silvia Santirosi