giovedì 14 ottobre 2010

Che ci fanno cinquantasei bambini dietro le sbarre?

(L'Unità, 13 ottobre 2010)
© RIPRODUZIONE RISERVATA (Francesco Cocco)
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Si chiamano Al Pacino, Esmeralda e Milena. C’è un’associazione che li porta fuori da Rebibbia, al Bioparco magari, o al circo. Normalmente però stanno dentro. In galera. Per colpe che non sono le loro.
Che ci fanno cinquantasei bambini dietro le sbarre?
Oggi è sabato. Alle sei del mattino i bambini che vivono con le loro madri nel carcere di Rebibbia sono già sve- gli. Perché il sabato è un giorno specia- le. Al Pacino, Esmeralda e Milena, co- me i loro quindici piccoli compagni, attendono l’arrivo dei volontari dell’Associazione «A Roma insieme», curiosi della meta che è stata scelta per loro: mare, Bioparco, circo o chissà quali altre avventure. Trascorreranno alcune ore insieme in spazi aperti, liberi di giocare e fare nuove scoperte fuori dalla dimensione carceraria che co- stituisce la loro quotidianità. Secondo la Legge Gozzini del 1975, infatti, le madri possono tenere in carcere con sé i figli fino all’età di tre anni. Come ha evidenziato, però, il primo studio italiano sulla condizione dei minori in carcere, condotto nel 2008 da medici dell’ospedale Bambino Gesù su un campione di 150 minori, la detenzione comporta dei rischi: il 20% risulta nato prematuro e molti sono stati svezzati troppo presto, con rischi di predisposizione a ipertensione e obesità. Senza contare la mancanza di stimoli adeguati, di esperienze relazionali e ambientali che influenzano la crescita di un nuovo essere in un periodo tanto delicato del suo sviluppo. 
Per questo sono così importanti le giornate all’esterno o i laboratori di Musicoterapia e Arteterapia a cui i piccoli partecipano con le proprie madri. «Come sempre accade in un ambiente ristretto» ci racconta l’onorevole Leda Colombini, presidente dell’Associazione, «in carcere c’è grande difficoltà nella convivenza, nella conservazione di un clima armonico. La presenza di etnie, lingue e religioni diverse non facilita l’integrazione. È di vitale importanza lavorare per l’infanzia» continua, «perché significa fare un investimento sul futuro. Per questo ci battia- mo da anni perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere».
L’impegno dell’Associazione si manifesta anche nella denuncia della condizione «di incolpevoli reclusi» in spazi inappropriati di questi bambini e nella sensibilizzazione delle Istituzioni competenti a provvedere sia a livello normativo, sia operativo. Ne è un esempio Che ci faccio io qui? – I bambini nelle carceri italiane, la mostra-reportage visitabile dal 9 al 20 ottobre al Foyer Spazio Oberdan (Viale Vittorio Veneto 2, angolo piazza Oberdan) di Milano. Gli scatti di cinque fo- tografi dell’Agenzia Contrasto (Mar- cello Bonfanti, Francesco Cocco, Luigi Gariglio, Mikhael Subotzky, Riccardo Venturi) sono stati realizzati in altret- tanti istituti penitenziari. Marcello Bonfanti che si concentra sul rapporto madre-figlio, il legame, i giochi, lavorando con un bianco e nero espressionista e una luce quasi caravaggesca. Senza colore anche le foto di Francesco Cocco che con la particolarità dell’inquadratura, con la durezza e il graficismo dell’immagine, sembrano invitare l’osservatore a considerare la questione letteralmente «da un altro punto di vista». Ambienti, senz’anima, e volti, quasi senza corpo e luogo, sono invece i soggetti indagati da Luigi Gariglio. E non sembra un caso che l’unica bimba ritratta abbia gli occhi chiusi. Le immagini di Mikhael Subotzky ci parlano di aperture e chiusure e di interni ed esterni, sempre apparenti perché sia- mo comunque dentro il carcere. «Quello che volevo catturare» dice il fotografo Riccardo Venturi, autore del reportage nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia a Roma, «era proprio la sensazione di abbandono, di isolamento, della monotonia dei gesti ripetuti, sempre uguali a se stessi, giorno dopo giorno. La mia presenza è stata un forte elemento di rot- tura con tutto questo. Rappresentavo il mondo di fuori».
SENZA SBARRE VISIBILI
Un mondo che non deve voltare le spalle alla questione, anche se riguarda un piccolo gruppo. Sono, infatti, 55 le donne-madri e 56 i bambini in tutta Italia contro le 68.005 persone che compongono la popolazione complessiva dei detenuti. E qualcosa negli ultimi dieci anni già si è mosso. Nel 2001 (con la legge n. 40 dell’8 mar- zo), la legge Gozzini ha subito una modifica grazie all’approvazione di misure alternative come l’I.C.A.M. di Mila- no dove i piccoli vivono in un ambiente senza sbarre visibili, personale in divisa, le regole ferree di un carcere e tutti gli altri problemi connessi a questo universo, come il sovraffollamento. Ma non basta ancora. Ecco allora l’incontro-dibattito del 21 settembre scorso a Palazzo Valentini per mettere sotto osservatorio e valutare le volontà reali di intervento. Ad esempio riguardo il testo unificato proposto dalla Consulta penitenziaria del Comune di Roma, l’associazione «A Roma insieme» e la comunità di Sant’Egidio.

«Un documento che riunisce tre proposte» ci spiega Leda Colombini, «la prima a proposito della recidiva, che riguarda soprattutto le nomadi, perché non costituisca più ostacolo per l’adozione di misure alternative. Un punto molto importante tenendo conto del fatto che il 98% delle detenute-madri in questo momento a Rebibbia è costituito proprio da nomadi, solitamente ree di danni al patrimonio. La seconda prende in considerazione il caso in cui il bambino abbia necessità di essere ricoverato, prevedendo la possibilità di visita della madre in ospedale, anche se non al pronto soccorso. La terza si concentra sulla questione delle case-famiglia che, secondo la proposta presentata, dovrebbero essere gestite direttamente dal Comune. Sul modello dell’ICAM, ma rientrando nel sistema delle Autonomie locali e non in quello penitenziario, renderebbero anche più facile la gestione di un programma di recupero e reinserimento. Nel documento originario era previsto anche un quarto punto che riguardava le detenute extracomunitarie, per ripensare il paragrafo della Bossi-Fini secondo il quale quest’ultime devono essere automaticamente espulse dal paese dopo aver scontato la loro pena». Un primo risultato raggiunto è la nomina di un Comitato ristretto nella Commissione Giustizia della Camera incaricato di rivedere il testo che era già stato preparato per l’Aula e che sarà discusso in quest’ultima sede a metà ottobre. «Quello che mi auguro» conclude Leda Colombini, «è che prevalga la linea delle case di accoglienza, perché se va avanti quella delle ICAM significa che incar- ceriamo piuttosto che scarcerare. Così nel caso delle straniere: auspico che una prospettiva di inclusione prenda il posto di quella dell’espulsione».
Silvia Santirosi
© RIPRODUZIONE RISERVATA (Unità)

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