giovedì 14 ottobre 2010

Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli, 2009 (Il Mattino 30/09/2009)

Non possiamo lasciare che questa storia se la inghiotta la notte, dissi, per favore»: in questa frase è cristallizzato il senso profondo dei nove «racconti raccontati» che Antonio Tabucchi raccoglie ne Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli pagg. 176, euro 15), il suo ultimo libro. Storie di nefelomanti (coloro che prevedono il futuro, scrutando le nuvole), di protagonisti di un tempo che non c’è più o che non è mai esistito, di bambini logici in un mondo totalmente preda del caos o che conoscono «la cosa più bella del mondo» anche se, forse, non hanno un futuro. La strada che percorriamo nel tempo, scriveva Henri Bergson, è coperta delle macerie di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare. Ed proprio questo che racconta lo scrittore: del passato, del presente e del futuro, reale o immaginato.
Che cos’è il tempo? E il tempo che invecchia? Qual è il legame con la nostalgia, sentimento comune a diversi personaggi?
«C’è un tempo storico e un tempo individuale, il tempo che è figlio di un patto sociale. Quello che credo si stia perdendo è l’idea di un tempo mortale. Non c’è più la misura del tempo, e si vive una ”futile immortalità”, quasi tascabile. E con esso viene meno la consapevolezza, la fermezza, nell’affrontare la quotidianità. Altra strategia in atto, la perversione del reale attraverso la sua negazione: se qualcosa non è successo, quando non è successo? Non è mai successo. E la nostalgia, quel contenitore vuoto che ciascuno ha la possibilità di riempire con la sua vita? Alla mia età credevo di sapere cosa fosse. E invece mi sono accorto che esiste anche una nostalgia ”del peggio”: come l’ebreo riparato in Israele dopo aver vissuto la Romania di Ceausescu che pure, alla fine della sua vita, desidera ardentemente la sua Bucarest. Ma questa nostalgia all’inverso può trasformarsi in una specie di muffa pestilenziale, diventare il prodotto di quell’incuria verso il tempo. Se lo si lascia invecchiare, questo finisce per uccidere, per condurre - di nuovo - alla tragedia. È necessario ritrovare degli orizzonti».
L’orizzonte è un «luogo ricorrente» della sua produzione letteraria.
«Desiderare, avere degli obiettivi, muoversi in una direzione: questo è un orizzonte. In un suo libro, un antropologo americano racconta questo aneddoto: durante il colloquio con un nativo, era in Africa, sono apparse delle zebre all’orizzonte. Indicandole ha esclamato: ”guarda, delle zebre!”. E il nativo ha risposto di no. È passato del tempo, gli animali si sono avvicinati al luogo dove gli uomini si trovavano e l’antropologo ha ribadito la sua tesi: ”ma sì, ora si vedono meglio. Sono proprio delle zebre”. L’altro ha risposto scuotendo la testa e aggiungendo: ”non ancora”. Ecco, l’orizzonte è quel non ancora che ci dà il senso e la misura di chi siamo».
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