martedì 11 gennaio 2011

Il mondo in un disegno

(L'Unità, 10 gennaio 2011)

Ne ha parlato anche Vittorio Giacopini nel corso del programma Pagina3 (Radio3). La puntata si può riascoltare in podcast QUI.
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Perché i più piccoli disegnano così? Qual è il rapporto tra vedere e pensare?
Un maestro elementare racconta la sua esperienza sul campo.


«Perché i bambini disegnano così?» si domandava Rudolf Arnheim nel capitolo “Sviluppo” del libro Arte e percezione visiva (1954). Per dirla in altri termini, prescindendo dalle abilità tecniche, dalla padronanza di strumenti e materiali, nel periodo dell’infanzia si disegna ciò che si vede oppure quello che si conosce? Qual è il rapporto tra vedere e pensare, tra creazione e conoscenza? Questo è il cuore dell’annosa questione, punto di volta su cui fare chiarezza: perché se si comprende il fanciullo, si capirà meglio anche l’uomo di cui lui non è che la promessa. Approccio che ritroviamo ne Il bambino e la sua arte. Novantasei tesi (Il melangolo, pp. 79, euro 16,00), una raccolta di riflessioni di un maestro elementare curata da Mario Gennari che fu suo alunno e che oggi insegna Pedagogia Generale e Filosofia della formazione umana all’Università di Genova.
Partiamo dall’uomo per arrivare al pensiero. Cesare Ghezzi insegnò dal 1958 al 1995 a San Quirico in Val Polcevera, piccolo comune vicino a Genova, alimentando la sua attività di educatore con un continuo studio e approfondimento teorico. Ne sono prova i rimandi e il confronto mai pacifico o pedissequo con le teorie di alcuni tra i più grandi pensatori del secolo scorso: Sartre, Arnheim, Merleau-Ponty, Wittgenstein, Gömbrich. Qualcuno è anche più antico, come Socrate. I suoi aforismi ne sono pieni e accompagnano le osservazioni maturate “sul campo”, quelle riflessioni nate dalla sperimentazione quotidiana. «Ciò che il bambino vede o che ha visto» leggiamo nell’aforisma n. 30, «si trasforma quando rievoca. Le immagini si caricano di nuove emozioni»; «ogni bambino» continua «costruisce così un suo mondo e con il disegno ce lo fa conoscere»: se ne deduce che l’attività pittorica è certamente uno strumento utile all’identificazione, alla comprensione e alla definizione delle cose, all’investigazione dei rapporti che le legano tra di loro e alla creazione di un ordine progressivo di complessità. Ma è anche, e soprattutto, un’educazione a pensare il cui fine ultimo è la costruzione di un metodo di relazione con il mondo esterno e interno che possa accompagnare il «processo di cambiamento, di sviluppo, di crescita, di maturazione e di trasformazione del bambino» (tesi n.10). Solo in quest’ottica è possibile capire una tesi (la numero 66) che afferma che il guardare abbia qualcosa in meno del vedere, intendendo il primo termine come il semplice atto percettivo e il secondo come già implicante un processo di riflessione. E continua: «vedere è meno di pensare. Pensare è meno di essere, ma è esistere davvero». Esistere, cioè vivere nella consapevolezza e nella libertà.
Resta da chiedersi quale sia il ruolo dell’insegnante. Cesare Ghezzi parla anzitutto delle caratteristiche che deve possedere: professionalità e intuizione a nulla servirebbero se non venissero accompagnate da delicatezza e rispetto, soprattutto verso tutto quello che il bambino non ha avuto ancora modo di conoscere (tesi 50). L’educatore deve, quindi, entrare in contatto e comunicare con la sua classe stabilendo un clima di fiducia. Ma questa è come la libertà: «bisogna darla per averla. La fiducia crea le condizioni per dinamizzare la comunicazione attraverso l’autenticità» (tesi 51). Ecco. È davvero (ancora) possibile seguire un tale orientamento? Sarà in linea con i Programmi Ministeriali? Di certo non con quelli fino agli anni Cinquanta che furono l’oggetto della tesi di Laurea del Ghezzi, discussa nel 1994. Perché quelli del 1923 abbracciavano la tesi idealistica (“i primi buffi tentativi del bambino con il disegno vanno rispettati e mai corretti”), quelli del 1945 la tesi positivistica (“i primi esperimenti vanno integrati con esercizi dal vero per modificarne via via le storture”), per non parlare di quelli del 1955 (che sono un confuso accorpamento dei primi due).
Un’ultima annotazione. Il libro possiede un’appendice che raccoglie alcune opere realizzate negli anni dai suoi alunni. Quale migliore compendio (visivo) di un’esperienza di grande valore, tutta da riscoprire? Dopotutto, quando a Thomas Moore chiesero di dimostrare l’esistenza della sua mano, il filosofo non fece altro che mostrare al suo uditorio il suo arto destro. Ça va sans rien dire.
Silvia Santirosi