sabato 26 marzo 2011

Le sirene del nichilismo

(Via Pò, 26 marzo 2010)
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Le due strade della filosifia, un saggio di André Glucksmann



“Da un lato, la contestazione più pungente, Socrate. Dall’altro, il professore di filosofia più influente del Novecento, Heidegger. Sono attuali l’uno quanto l’altro. Si disputano il senso che occorre dare a un’epoca sradicante e sradicata, la nostra”. To be or not to be Socrate, to be or not to be Heidegger: this is the question. Questo si chiede André Glucksmann in Le due strade della filosofia (Spirali 2010), un libro che è anche un vero e proprio match filosofico in quattro round – pensare liberamente, pensare mortalmente, pensare amorosamente, pensare per sopravvivere – senza esclusione di colpi. La posta in gioco è alta, il prevalere dell’una o dell’altra posizione non implica soltanto la vittoria di una visione, ma la stessa cancellazione dell’altra. Senza parlare dell’invito rivolto al lettore, velato ma insistente, a prendere posizione e a scommettere sull’uno o l’altro contendente. Certo è che il filosofo francese non ha dubbi sul vincitore. Prevale sul “vivere per la morte” l’imperativo del “conosci te stesso!” che introduce l’individuo alla dura necessità – tutta atea, ovviamente! – della responsabilità del pensarsi senza soccorso. E di resistere alle sirene del nichilismo: di quello passivo (quello del cammello cristiano, per intenderci) e del nichilismo attivo (dei grandi artisti o conquistatori, dei leoni insomma). Un pensiero che risulta compiuto, e quindi ancora più pericoloso, quando cammello e leone si accoppiano e il senso di irresponsabilità diventa universale. “Il nichilismo si vorrebbe destino inesorabile” scrive André Glucksmann, eppure ciò che davvero contraddistingue il nichilista non è il suo atteggiamento di negazione tout court, ma soprattutto il suo diniego del falso. Quando l’essere autentico, ossia colui che “decide di decidere” anche nell’angoscia, non distingue più tra la parola apofantica (cioè quella che separa il vero dal falso) e la preghiera performativa, ossia l’autoaffermazione della propria verità, è in questo momento che abdica alla sua stessa autenticità. Quello che fa, insomma, il gatto quando nasconde gli escrementi sotto la sabbia o Heidegger per nascondere il suo cedimento al pensiero poetante: usa Hölderlin. Per l’appunto.
La mossa di Glucksmann è semplice: mette a confronto il filosofo tedesco e quello greco – entrambi pensatori della crisi delle loro civiltà – per comprendere in che modo le loro riflessioni influenzano il destino della loro epoca. Che ne ricava? La messa in evidenza che sapere il niente non è non sapere niente, anzi. Sapere di non sapere, in realtà, afferma una conoscenza dei limiti nella misura in cui il pensiero non si arresta a subire la crisi ambientale, ma intraprende la sfida di (ri)pensarla. “Coltivavo la curiosa sensazione che le innumerevoli crisi che ci assalivano manifestassero più segretamente una crisi delle crisi”: così parla Socrate (per interposta persona) nel capitolo di apertura del libro quando si confessa, quando prova a raccontare quel “qualcosa di marcio”, quella peste che aveva spazzato via riferimenti, certezze, tradizioni consolidate nella sua Atene (o Parigi, poco importa). Eppure, nonostante l’aleatorietà, la liquidità di ogni riferimento, permane un bisogno – ostinato – di rigettare la fragilità, la mortalità che è propria di ciascun individuo e dell’umanità tutt’intera, un bisogno di superamento, di sopravvivenza alla propria morte attraverso la costruzione di una famiglia ad esempio, o all’oblio sociale magari grazie al riconoscimento in un collettivo inossidabile. Come resistere allora alla peste, al capovolgimento di tutti i valori? Come non chiudere gli occhi davanti a “un secolo avido di carne fresca”, che ha divorato milioni di persone in nome di un’indifferenza all’infelicità degli uni e ai crimini degli altri che va ben al di là del – semplice – errore morale? Il ko finale del tedesco, il braccio alzato del greco sta proprio a ricordare a tutti noi che la consapevolezza nella propria finitudine emancipa dagli altri, da se stessi e forse rende liberi. Anche e soprattutto dal nichilismo.
Silvia Santirosi