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Gli occhi del colore del cielo in una giornata brumosa, il sorriso accennato a fior di labbra, le parole offerte all’ascoltatore senza fretta: incontriamo Craig Thompson nella sede di Casterman, il suo editore francese, per parlare della sua nuova novel graphic Habibi (Rizzoli/Lizard, pp. 672, euro 35,00), un’opera dalla complessa architettura, un incastro raffinato di storie, punti di vista, di mondi fantastici o meno, un gran calderone in cui con sapienza ed eccentricità si combinano riflessioni ecologiste, sull’amore e sulla calligrafia, a un tentativo di dimostrazione della radice comune delle tre religioni monoteiste. E molto altro ancora. Dopo un veloce scambio di battute di presentazione, entriamo nel vivo della chiacchierata. «Il cuore della storia» ci dice l’autore americano, «è la relazione sentimentale fra Zam e Dodola, dei loro traumi sessuali. La questione che mi interessava indagare era quella di come possono guarire gli individui segnati da esperienze negative. Grazie a una relazione? Un luogo particolare?».
Possiamo allora affermare che la forza dell’individuo è nella coppia?
«Credo che l’individuo debba rafforzare prima se stesso, curarsi se ha avuto dei problemi, prima di arrivare a essere davvero presente in una relazione. Non è possibile tenere insieme due pezzi rotti. Per me è stato più facile scrivere le storie separatamente e raccontare l’attesa dell’uno e dell’altra. Penso che questo stato di cose parli molto alle persone. Il momento più duro da affrontare è stato il momento in cui si sono riuniti. Ho passato mesi senza sapere come la storia si sarebbe conclusa».
«Habibi» può essere considerato un omaggio alle diverse forme d’amore che una donna può incarnare?
«Non in maniera cosciente, anche se sono contento che lei lo abbia percepito. Come uomo certamente non posso che scrivere da un punto di vista eminentemente maschile. Questo lavoro è comunque un libro che cerca di rendere fluidi i confini fra i generi, fra il maschile e il femminile. È lo stesso principio che mi muove nel mio tentativo di dimostrare che non ci sono poi così tante differenze tra le diverse religioni monoteiste».
Crede che ci sia un unico dio per tutti o che dio non esista?
«Sono convinto dell’impossibilità della percezione umana della divinità. Questo però non mi impedisce di avere una spiritualità. Anzi, credo che ogni essere umano sia sacro e questo implica di rispettare ognuno, ma devo ammettere che sono più interessato agli aspetti esoterici ed estetici di quelle religioni».
In «Carnet de voyage» (2004) paragona la danza alla scrittura. Vale lo stesso per il fumetto?
«No. Danzare coinvolge il corpo nella sua interezza, disegnare fumetti solo una piccolissima parte. Tuttavia penso che ci sia una musicalità nel fumetto, e nella calligrafia, ed è proprio questo ritmo tutto speciale che cerco di restituire attraverso il mio lavoro».
Dunque, la musica più che il cinema.
Dunque, la musica più che il cinema.
«Certamente. Chris Ware dice che una tavola a fumetti è una specie di partizione, che i disegni sono le note musicali e che è compito del lettore di battere il ritmo. Il disegnatore, attraverso le vignette, non fornisce altro che indizi. Al cinema, invece, tutto il processo viene subito. Le immagini si muovono davanti a noi, mentre durante la lettura di un fumetto niente, letteralmente, si muove. La magia è creata dal lettore».
Visto il successo avuto, ha mai pensato di realizzare un’animazione di «Blankets»?
«Nel 2004 l’idea era stata presa in considerazione, anche se alla fine ho deciso di non dare più seguito al progetto. C’erano alcuni problemi a livello contrattuale ma soprattutto si trattava di una storia i cui personaggi erano reali e alcuni di questi non erano d’accordo».
C’è stato un prezzo che ha dovuto pagare per raccontare questa storia?
«Ho ferito alcune persone che mi erano vicine. Mi sono posto anche il problema se continuare a disegnare fumetti, a fare arte».
Autore completo, lei scrive e disegna le sue storie. Qual è la differenza tra l’immagine e la parola? La prima è più potente della seconda?
«Parole e immagini hanno ciascuna i loro punti di forza e di debolezza. Personalmente non mi sento a mio agio escludendo l’una o l’altra. Quello che è certo è che quando riesco a trovare un equilibrio con entrambe, allora ho l’impressione di avere una certa eloquenza. L’immagine è sicuramente più immediata. Però una sequenza disegnata ha bisogno di più spazio e tempo per trasmettere un’informazione, la stessa che può essere invece contenuta in un paragrafo. A volte la prosa è più efficace, ma anche questo non è sempre vero».
Progetti futuri?
«Sto lavorando contemporaneamente a tre nuovi libri, tra cui un fumetto per ragazzi e il primo tomo di una serie. Dopo un albo così impegnativo, avevo voglia di divertirmi un po’».